Molti pittori professionisti dell'epoca persero il lavoro per colpa della fotografia, nonostante fosse ancora a livello rudimentale. Non parliamo certo dei nomi celebri della pittura, sebbene l'avvento della fotografia abbia portato a grandi dibattiti anche fra i big dell'epoca dividendoli fra chi la vedeva come un'opportunità e chi come un pericolo; quel che si sa è che la fotografia ha sicuramente contribuito alla nascita dell'impressionismo, lontano da una rappresentazione molto realistica della realtà al punto da discostarsi in maniera netta dal lavoro dei fotografi.
A farne le spese più che altro furono i pittori ritrattisti, quelli chiamati dalle famiglie agiate per poter esporre alle pareti membri del nucleo familiare ad imperitura memoria dei posteri. La "fotografia", nella forma del dagherrotipo, portava in dote quel tasso di veridicità e congruenza con la realtà sconosciuta alla pittura, diventando quindi la forma privilegiata di ritratto. I problemi nascevano però quando il cliente lamentava la mancanza del colore. E non erano in pochi a farlo.
Il dagherrotipo nella sua forma più diffusa prevedeva l'utilizzo di una lastra di rame sulla quale veniva applicato uno strato d'argento tramite elettrolisi, a sua volta reso sensibile alla luce una volta messo a contatto con vapori di iodio. A questo punto scattava il cronometro (o qualcosa di più economico, girando una clessidra): una lastra siffatta poteva garantire la propria sensibilità alla luce per circa un'ora, e l'esposizione poteva durare anche 20 minuti. Lo sviluppo inoltre avveniva per esposizione ai vapori di mercurio, tossici. Tutto questo per ottenere un'immagine in scala monocromatica: fedele nei tratti, non certo nei colori.
Per avere fotografie a colori il modo più semplice, si fa per dire, era quello di colorare fisicamente la lastra. Ma le cose si complicavano ulteriormente, con idee molto diverse sul come procedere. I metodi più diffusi prevedevano l'applicazione di una vernice trasparente sulla quale colorare a mano con normali vernici, mentre altri coloravano direttamente il dagherrotipo, a patto che questo fosse stato precedentemente dorato per una maggiore stabilità. Non finisce qui: altre soluzioni prevedevano la colorazione parziale della lastra tramite vernici trasparenti, che necessitavano di fissaggio per mezzo di corrente elettrica (non certo diffusa all'epoca), oppure con riscaldamento controllato della lastra.
Stefano Stampa, Ritratto della madre Teresa, 1852 (Milano, Biblioteca
Nazionale Braidense)
Insomma, un lavoraccio. I risultati potevano anche essere soddisfacenti, certo, ma erano comunque di compromesso. Serviva altro fra cui uno studio del colore e della sua riproducibilità visto in un'ottica diversa, ovvero applicato alla fotografia. Non tardarono ad arrivare i primi progetti e le prime teorie, che facevano leva in maniera più o meno credibile sui concetti di sintesi additiva e sintesi sottrattiva, il tutto per arrivare al grande traguardo del colore diretto, non aggiunto a posteriori.
Ma qualcuno ci aveva già provato. Intorno al 1840 Sir John Frederick William Herschel, astronomo, matematico e chimico inglese, si disse in grado di fissare i colori rosso, verde e blu su carta, opportunamente arricchita di cloruro d'argento. Secondo lo scienziato, i tre colori indirizzati sulla carta da un prisma attraversato da luce solare potevano essere fedelmente "fissati", ma non aveva fatto i conti con la complessità del procedimento. Attirati gli interessi della comunità scientifica, si scoprì presto che tutto ciò che Sir Herschel affermava era vero, ma per un periodo limitatissimo di tempo, oltre il quale la carta si anneriva per sempre.
Sono due però le certezze per cui gli dobbiamo riconoscenza: la prima è la dimostrazione che ottenere direttamente il colore in fotografia era possibile, la seconda per i termini "fotografia" (nella sua lingua, ovviamente), che fino ad allora non esisteva, nonché i concetti di positivo e negativo fotografico. Gli saranno sfuggiti gli "attimi colorati", ma sarà ricordato comunque come un pioniere del settore.