Sono anni di grande fermento nei quali merita una citazione un personaggio controverso sotto molti aspetti, ma che occupa un posto particolare in questa nostra breve storia sulla ricerca del colore. L'anno è il 1851 e questa volta ci troviamo negli USA, precisamente a New York; mancano più di trent'anni alla costruzione del ponte di Brookyn e la città è popolata da carrozze, mentre l'high tech è costituito dalle prime rotte ferroviarie commerciali, che volano come il vento a 48Km/h.
In questo contesto si scervella Levi Hill, un ministro appassionato di dagherrotipia, padrone della tecnica di realizzazione e intenzionato a fare il grande passo verso il colore. Secondo le sue dichiarazioni, proprio nel 1951, ci riesce. La comunità scientifica è in fermento, e l'attesa di vedere le prime realizzazioni crea una vera e propria ansia fra i professionisti. Seguendo la moda dell'epoca il nome della tecnica è Hyllotype, hillotipia, derivante dal proprio cognome, e avrebbe dovuto indicare un procedimento di colorazione diretta.
I suoi annunci bloccarono letteralmente il mercato dei dagherrotipi, poiché i clienti preferirono attendere l'imminente presentazione della nuova tecnica, facendo inferocire i professionisti dell'epoca. Purtroppo però le opere mostrate risultarono chiaramente colorate a mano, pur essendo particolari sotto diversi punti di vista. Pubblicò inoltre, a distanza di anni, una sorta di trattato sull'Eliocromia, che non conteneva indicazioni chiare sul processo di realizzazione e costituiva più che altro un diario di esperimenti. Però qualcosa di vero c'era.
Hillotype view of houses, c. 1850
Tacciato come ciarlatano, passò tutto il resto della sua vita inseguendo il sogno del colore, provando ogni tipo di materiale o soluzione chimica comprese quelle molto tossiche, che lo portarono alla morte a soli 48 anni. Studi recenti hanno dimostrato che Mr. Hill qualcosa aveva fissato, sebbene in maniera rudimentale e riferito solo a pochi colori, non certo tutti quelli dello spettro visibile. Altre fonti inoltre riportano quella che fu una sorta di confessione avvenuta prima della morte: Hill confermò di aver colorato a mano alcuni lavori ma anche di aver realizzato alcune fotografie a colori (parziali) ma praticamente a casaccio, una ventina di anni prima, e di aver passato il resto della sua esistenza nel tentare di ripetere il processo (senza riuscirci), e da lì ripartire per catturare anche gli altri colori. Uno sporadico e maledetto colpo di fortuna, che gli fu fatale.
Alexandre-Edmond Becquerel (padre del più famoso Antoine Henri Becquerel, premio Nobel per la fisica grazie alla scoperta della radioattività) era invece un fisico francese, impegnato per tutta la sua vita a studiare i fenomeni legati a magnetismo, elettricità, ottica e non ultimo nell'analisi dello spettro solare. Negli anni intorno al 1850 provò anche lui la via del colore diretto, concentrandosi a sua volta sull'applicazione ai dagherrotipi, a quei tempi il più convincente dei modi per fissare un'immagine. Tentò la via dell'eliografia, ovvero impressionare il substrato con luce naturale senza passare per filtri colorati, ma non riuscì mai a fissare veramente i colori, che per giunta viravano al grigio se esposti ulteriormente a luce solare, la stessa che li aveva creati.
Una decina di anni più tardi ci provò anche Abel Nièpce de Saint-Victor, un protagonista su più fronti nell'ambito della tecnica fotografica e di riproduzione delle immagini. Nel suo laboratorio nei pressi di Parigi perfezionò in maniera significativa il processo di incisione a rotocalco per la stampa fotomeccanica di suo zio, lavorando al contempo al fissaggio dei colori naturali in ambito fotografico. Ci si stava avvicinando molto alla soluzione, o almeno alla prime di molte che seguirono, ma anche lui mancò l'obiettivo. Non senza quella frustrazione che si prova nel sentirsi ad un passo dalla soluzione, senza riuscire a compierlo.