Il mondo della fotografia vive di molte contrapposizioni fra appassionati ma anche fra professionisti: c'è chi preferisce il colore al bianco e nero, un marchio rispetto all'altro, la mirrorless o la reflex, ma gli animi si accendono veramente (più fra gli appassionati che fra i professionisti, a dire il vero...) quando si tocca il discorso della post produzione, per molti oggi sinonimo di "usare Photoshop", sottintendendo con malcelata seccatura un comportamento scorretto, di chi gioca sporco.
La rivoluzione digitale è arrivata in modo dirompente nel mondo della fotografia, seminando scompiglio e disordine anche in molte certezze. Fino alla pellicola esistevano due figure ben distinte per arrivare al risultato finale, quasi sempre una foto su carta: il fotografo e lo sviluppatore/stampatore, raramente incarnate dalla stessa persona. L'eccezione è solo il fotografo delle origini e poco oltre, più simile alla figura di un fotografo/chimico che provava in diversi modi a fare da sé, poi sono arrivate figure specializzate. Oggi quasi sempre chi scatta si occupa anche della post produzione, dovendosi spesso giustificare agli occhi dei "puristi dello scatto". Anche qui eccezioni: esistono professionisti che mandano in tempo reale gli scatti al proprio staff ma siamo in situazioni particolari (sport ed eventi moda, soprattutto, dove occorre tempestività di pubblicazione).
Riassumendo, oggi molti appassionati e non pochi professionisti operano da soli la post produzione. La conseguenza diretta è sotto gli occhi di tutti: la post produzione, rispetto al passato, è ora chiaramente visibile, specie quando chi la fa eccede o non è professionale (con le dovute eccezioni). Se già in molti si proclamano fotografi senza esserlo veramente, il problema diventa drammatico quando si auto assurge al secondo ruolo, di importanza cruciale oggi forse più che in passato.
In molti percepiscono questo vero e proprio mestiere come qualcosa di recente, che avvelena il senso sacro della fotografia. La realtà è completamente diversa ma non è questa la sede per discuterne. Lo scopo di questo articolo è diverso, ovvero cercare nella storia esempi di post produzione che provino come di fatto le due discipline siano andate a braccetto praticamente da sempre. Ben oltre 100 anni prima di Photoshop. Sarà un viaggio nel tempo basato su certezze provate, sebbene queste costituiscano solo la punta dell'iceberg vista la "gelosia" con cui molti segreti sono stati custoditi nel tempo.
Joseph Nicéphore Niépce, 1826
Opinione ormai consolidata vuole che la prima fotografia in assoluto possa essere ritenuta questa, che il francese Joseph Nicéphore Niépce "scattò" nel lontano 1826. Otto ore di esposizione con luce solare piena, pece di Giudea come elemento sensibile, qualità generale pessima ma un enorme passo avanti dal punto di vista tecnologico, perché tutto è partito da qui. La riportiamo per un semplice fatto: sono bastati vent'anni di allora non solo per arrivare ad una qualità enormemente superiore, ma anche per la prima idea di fotoritocco della storia.
A soli 15 anni dal big bang della fotografia, nel 1841, William Henry Fox Talbot brevetta la calotipia (o talbotipia): si tratta di un procedimento fotografico che permette di stampare più immagini dello stesso soggetto, riproducibili con la tecnica del negativo / positivo. Calvert Richard Jones (suo collega), 5 anni dopo, mette mano a uno dei negativi. Lo scopo del suo lavoro era realizzare vere e proprie cartoline di Malta, scegliendo come soggetto un gruppo di monaci Cappuccini. Ma quel monaco tagliato, là dietro nell'inquadratura, proprio non gli piace. Si ingegna, sceglie di scurire visibilmente il negativo colorandolo con un non meglio precisato inchiostro indiano. Ottiene l'immagine desiderata dando vita, per quel che si sa, al primo "editing" della storia (l'immagine a destra, quella finale, è ovviamente invertita e volutamente sviluppata con tempi più lunghi del normale per "cancellare" eventuali segni visibili della manipolazione, N.d.R.). Non passano nemmeno 20 anni e riusciamo a intuire gli ulteriori passi da gigante fatti, grazie a una storia poco nota.
Siamo ora nello scenario del "Far West", Stati Uniti, diciamo fra il 1850 e il 1860. Non c'era la TV, la fotografia non era certo di massa, motivo per cui le informazioni passavano attraverso i pochi giornali e soprattutto con il passaparola, fortemente influenzato dai primi specie se si parlava di personaggi politici su cui si era chiamati ad esprimersi. Abraham Lincoln, divenuto poi Presidente degli Stati Uniti, godeva di una pessima fama. Ecco cosa si scriveva di lui a quei tempi:
The NorthBern Weekly Progress, Carolina del Nord
"Brutto, rozzo, volgare e non istruito".
Parole che pesano come macigni su una campagna elettorale, ma nulla se confrontate a quelle di chi lo avversava apertamente:
Telegraph, Houston:
"La massa più magra, lenta, sgraziata di gambe e di braccia mai viste su un singolo soggetto. Ha ingiustamente abusato del privilegio che tutti i politici hanno di essere brutti".
Due problemi: il primo è che con una voce del genere che corre di bocca in bocca si può dire addio ad ogni velleità di elezione, il secondo, forse peggiore, è che c'era della verità in quelle parole, a causa di una malattia da cui Lincoln era affetto. Ora dobbiamo immedesimarci un po' in come pensavano le persone a quel tempo: l'estrema magrezza era un grosso difetto, sinonimo di indigenza o di malattia. Lincoln era un gigante di quasi 1,95m magrissimo, con arti di lunghezza anomala, e tanto bastava per creare estrema diffidenza nei suoi confronti a prescindere dalle idee e dal programma. Ed ecco il colpo di genio: Lincoln sente parlare di un fotografo, Mathew B. Brady, e ritiene che sia una via da tentare per il riscatto della sua immagine.
Mathew B. Brady, 1860
Mathew B. Brady è uno bravo: prima di tutto non sceglie la figura intera in voga all'epoca, per minimizzare la magrezza enfatizzata ulteriormente dall'altezza. Sullo sfondo praticamente nulla che possa essere preso a riferimento. Chiede inoltre a Lincoln di piegare le dita della mano destra, con la sinistra appoggiata a due libri (uno sicuramente la Bibbia), oltre che di indossare i vestiti più voluminosi. Ma non è finita: in fase di stampa effettua una post produzione mirata: la parte superiore, dove c'è il volto, è molto più luminosa e contrastata, al fine di catturare lo sguardo dell'osservatore lì, distraendolo dalle proporzioni generali. Ne esce un ritratto di una persona normale, priva di quegli eccessi decantati da alcuni giornali. Forse è il primo esempio di propaganda politica a cui la post produzione (e la bravura del fotografo) ha offerto il proprio servizio. Il resto è storia, anche se non è finita qui.
Thomas Hicks, fotografo e pittore, 1862/1863
Passano pochi anni e ci si fa prendere un po' la mano. Un ritratto a figura intera di Lincoln inizia a circolare, mostrando una persona normale a tutti gli effetti (qualcuno deve anche avergli consigliato di far crescere la barba, per mascherare le spigolosità dei lineamenti). Decenni dopo si scoprirà che l'autore, Thomas Hicks (fotografo e pittore) fece un brutale copia e incolla del volto prendendo come base un ritratto di John C. Calhoun (politico anche lui, schiavista, di idee opposte, un po' come se oggi... no, meglio non pensarci. N.d.R.).
Insomma, tutto è già sdoganato e utilizzato oltre 150 anni fa, anche se la post produzione in questi primi casi è di fatto un sinonimo di menzogna (più o meno carica di malizia), come vedremo anche in altri esempi. Sempre di quel periodo, in Gran Bretagna, è attivo anche un altro pioniere del fotomontaggio, Henry Peach Robinson.
Henry Peach Robinson, "Fading Away", 1858
I suoi lavori sono figli della composizione pittorica, unita a quello che oggi viene chiamato storytelling. Definito anche un pittorialista, propone lavori di elevatissima qualità per l'epoca, con appunto una storia da raccontare. In Fading Away, criticato perché aveva come tema la morte (ancora un tabù in fotografia), narra in un istante la lenta agonia di una ragazza e la disperazione della famiglia. Il padre che guarda sconsolato fuori dalla finestra, la madre che prega, la sorella o la badante che consola. Gli enormi limiti tecnici dell'epoca non permettevano di fare questa foto in un solo scatto, infatti sono più fotografie singole unite in post produzione. Impensabile per l'epoca avere dettaglio nelle luci (fuori dalla finestra), tutti i soggetti a fuoco, la luce nel posto giusto sui volti, il bilanciamento delle luci in generale. E, ovviamente, sono tutti attori. Ma la resa, sia qualitativa che narrativa, è incredibile non solo per l'epoca ma anche per oggi.
Ma stiamo solo iniziando a scalfire il concetto che prima del digitale le foto erano esattamente come uscivano dalla macchina fotografica. Con un salto temporale non indifferente, in cui come immaginerete la tecnica si è evoluta sia per quanto riguarda le emulsioni fotografiche, sia per le tecniche di post produzione, arriviamo agli anni '30 del XX secolo.
George Hurrell, 1931
Circa 90 anni fa era già possibile eseguire una post produzione che, senza saperlo, immagineremmo possa esistere solo da poco. Ecco uno dei tanti esempi, ovvero il ritratto a Joan Crawford scattato da George Hurrell nel 1931. Joan Crawford è una star di Hollywood del periodo d'oro e qui ha 27 anni. Nell'immagine a sinistra si nota la stampa della foto così come è uscita dalla macchina, con un semplice lavoro di sviluppo. Del tutto differente il risultato ottenuto nella fotografia di destra. Spariscono nei, imperfezioni della pelle, rughe sotto il collo, il tutto con un effetto "soft" ottenuto per vibrazione (ma senza creare un effetto mosso generale... il Mestiere, con la M maiuscola).
Ma ci sono anche i "mostri sacri" della fotografia. Ansel Adams, ritenuto il padre della fotografia paesaggistica del West, attivo dagli anni '20 agli anni '60 del XX secolo, non solo non ha mai nascosto il suo uso massiccio della post produzione, ma ci ha scritto anche dei libri. Celebre la sua trilogia "The Camera", "The Negative" e "The Print", una miniera di informazioni utili per i fotografi dell'epoca alla ricerca di scatti dal grande impatto.
New Mexico, 1941
I forti contrasti, l'assenza di "bruciature" (la Luna ha più dettaglio nel dopo rispetto al prima)... l'impatto dei suoi scatti sono la diretta conseguenza di una post produzione estremamente efficace. Serve essere bravini anche oggi, con Photoshop e tutto, per avere un effetto simile. Lo stesso Ansel Adams ha esposto in diverse mostre il prima (tutto piatto e "smunto") e il dopo, come in questa fotografia che ritrae un paesaggio del New Mexico, datata 1941.
Negli anni '50 del XX secolo ha grande successo quella che è nota come la Red Velvet Collection, che ritrae una Marylin Monroe nelle sue immagini più celebri. Tutta incentrata sul rosso, simbolo di amore e passione (e di cuori ne ha scaldati parecchi, Marylin, uno dei primi sex symbol della storia), in realtà gli scatti originali sono tutti, ma proprio tutti, in bianco e nero. La sovrapposizione di lastre colorate, fino a oltre venti, hanno permesso di ricreare in stampa il rosso e tutte le relative sfumature della pelle e del panneggio. Non solo: in molte era completamente nuda e la biancheria intima aggiunta sempre a mezzo di lastre, come nella fotografia più a destra.
Più o meno contemporaneo questo interessante documento, che ritrae le indicazioni del fotografo Dennis Stock al suo stampatore, in riferimento al ritratto fatto a James Dean nel 1955. Funzionava così: lo stampatore consegnava le prime prove al fotografo, che poi prendeva appunti per segnalare dove la foto dovesse essere più o meno esposta, dove lavorare su ombre e luci, e via via di indicazione in indicazione. I mezzi erano diversi, ma le finalità del fotografo le medesime (gamma dinamica, "latitudine di posa", chiamate le cose come volete, ma alla fine oggi non stiamo inventando nulla).
Non poteva mancare nella nostra breve cronistoria anche Steve McCurry, contemporaneo ritenuto il maestro del colore. Qualche tempo fa fece scalpore un suo scatto, trattato dai suoi collaboratori in sua assenza, in cui comparve un grossolano errore di post produzione digitale.
Una "clonata digitale" venuta male, interrotta forse da una telefonata e poi dimenticata... non lo sappiamo. Ma resta la certezza che, allora come oggi, il ricorso alla post produzione è presente e consolidato, spesso anche per compensare quei limiti tecnici delle apparecchiature che nemmeno lontanamente si avvicinano al binomio occhio-cervello. Ma ne parleremo un po' fra non molto.
Ecco un altro esempio, in cui si può notare non solo come molti elementi di disturbo sullo sfondo siano spariti, ma anche una persona presente sul risciò, quella sorridente, che toglieva drammaticità alla foto. Lo scatto è stato snaturato? Non ci racconta la stessa cosa? Ci porta comunque in un luogo facendoci provare emozioni? Sono domande a risposta multipla, dove il giusto e lo sbagliato era e resta una questione personale. Ci sarà sempre il sì, il no e tutto quello che ci sta in mezzo.
La post produzione oggi? E' tutto quello che abbiamo visto, più altro, alla potenziale portata di tutti e questa e solo questa è la grossa novità. Non più solo un elite, con picchi di maestria e altamente specializzati, ma tutti. Può essere menzogna pura o un più nobile recupero dei limiti della strumentazione in termini di gamma dinamica, bilanciamento del bianco, luminosità e contrasti. In Camera Raw, o in Photoshop, o attraverso un'app gratuita e via dicendo. State certi però che nella quasi totalità dei casi c'è, senza che questo costituisca una novità.
Oggi è praticamente impossibile (come allora) osservare foto di un certo livello senza che chi l'ha scattata ci abbia messo un po' mano. Che sia paesaggio, natura, ritratto (omettendo la moda, lì è veramente l'apoteosi), street photography, c'è la consapevolezza che si possono recuperare dettaglio, nitidezza, luci e ombre al fine di ottenere una fotografia migliore. Recuperare ombre dal prato nella foto riportata è mentire? Quando davanti agli occhi erano ben visibili i singoli steli? Se si esponeva un po' di più il cielo poteva essere "bruciato", per salvare il dettaglio in quella parte... Sono queste le domande aperte, insieme ad altre assurdità del passato come, in certi concorsi, era consentito l'utilizzo di Camera Raw ma non di Photoshop/Lightroom, facendo cadere in un grossolano errore nomi eccellenti. Il margine di "modificabilità" in Camera Raw è immenso, come lo è in Photoshop/Lightroom, ma per la questione di "sviluppo" del negativo digitale c'è ancora oggi molta confusione.
Si può mentire anche senza post produzione e siamo punto a e a capo sull'etica o non etica della questione. Chiudiamo infatti con una fotografia celebre, bellissima, entrata nella storia della fotografia a buona ragione. Per molti anni è stata presa ad esempio dai "puristi dello scatto", che non serve affatto la post produzione se sei capace, se cerchi il momento giusto e altri ingredienti comunque necessari a prescindere.
Robert Doisneau, 1950
Per decenni il simbolo dell'Amore, anche in questo caso con la A maiuscola, il bacio di questa foto è fortemente collegato a Parigi (sullo sfondo l'Hotel de Ville, il municipio), la città più romantica per antonomasia. Il successo è immediato, ci sono tutti gli ingredienti del "cogliere l'attimo", complice una composizione che va contro a tutte le regole, come se il fotografo fosse stato lì e, fregandosene di tutto, avesse scattato per non perdersi il momento. I soggetti non sono al centro, ma nemmeno nei terzi o nei punti di fuoco. C'è un cappello che disturba in primo piano, una persona tagliata a metà, un lampione che spunta dalla testa di un'altra persona che, di suo, già un po' distrae. Non solo: altri personaggi "mischiati" per metà ai soggetti, non è perfettamente ferma. Un concentrato, insomma, di quello che non si dovrebbe fare in fatto di inquadratura. Tutto funzionale al "cogli l'attimo".
Dopo circa 40 anni da quel 1950 e consolidato l'enorme successo della foto, si fanno avanti due francesi, Denise e Jean Louis Lavergne. Denise sostiene di essere la donna ritratta e porta in tribunale Doisneau, reo a suo avviso di aver fatto una fortuna sfruttando la sua immagine. Ed è solo lì che Doisneau scopre le sue carte, mandando a casa gli accusatori con la coda fra le gambe: quella foto era costruita, ad essere ritratti erano due attori teatrali, la composizione volutamente errata sotto ogni punto di vista. Presente al processo c'era anche uno degli attori, Francoise Bornet, con in tasca una foto dell'epoca autografata dal fotografo. La foto perde di significato? A nostro avviso no, non perde nulla della sua potenza comunicativa, ma siamo ancora al punto in cui ci potrebbe essere chi non è d'accordo, avanzando ragioni plausibili.
L'articolo è stato scritto con finalità di riflessione, non certo per dare giudizi: la fotografia era ed è una disciplina complessa, piena di risvolti, che può raccontare storie, emozionare, rendere partecipi, portarci dove non siamo mai stati e dove forse non andremo mai. Una cosa certa esiste però: non smetterà mai di essere estremamente affascinante.